Introduzione

Nell’approssimarsi della Santa Pasqua, la “festa delle feste”, la “solennità delle solennità”, sento il dovere di raggiungerti con questo scritto per vivere “la grande settimana” con lo spirito del credente in Cristo che riconosce che «il mistero della risurrezione, nel quale Cristo ha annientato la morte, permea della sua potente energia il nostro vecchio tempo» (CCC 1169). 

Ti scrivo perché preferisco affidarti qualcosa che possa rimanere e a cui potrai fare riferimento. Non amo lasciare tracce nei “contenitori online” in cui tutto, sempre, si può trovare ma che ci allontana dal vero stare con noi stessi, dal guardare il profondo del nostro cuore e della nostra interiorità. Nell’ultimo mese ho visto, anch’io, un susseguirsi di “spirituali” pubblicazioni video, messe online che, a mio avviso, hanno distratto l’attenzione dal poter “vedere e gustare” quanto la Chiesa di Pietro sta facendo in questi tempi. Chi vuole può vedere ogni giorno Papa Francesco, ascoltare le sue parole, osservare il silenzio della spiritualità e ciò può bastare; non serve una moltiplicazione di video quanto una uniforme preghiera con il Sommo Pontefice. 

In questi giorni tutti i sacerdoti hanno celebrato la Messa nella forma privata del popolo di Dio, ma hanno offerto comunque il sacrificio pro populo senza darsi a vedere, senza apparire, nel silenzio del sacro che vuole un incontro autentico con i propri ministri. Anche noi sacerdoti dell’Unità Pastorale sant’Ansano, concelebriamo la santa Messa e, insieme, preghiamo per ognuno di voi e per tutte le vostre necessità. La settimana santa sarà concelebrata in forma privata in un abbraccio che sarà spirituale piuttosto che virtuale.  

Le nostre comunità parrocchiali, negli ultimi anni, hanno visto un progressivo allontanamento dalla Chiesa, comunità di fedeli. Un’immagine forte, ad esempio, è il campanile della Chiesa di santa Teresa della comunità parrocchiale di Allerona scalo che i fedeli hanno fatto costruire con le proprie possibilità e forze. Le campane, suonano, ogni giorno, per raccoglierci in preghiera e ricordarci che c’è un Padre che ci sta aspettando per incontrarci, per ascoltarci, per parlarci e metterci in “comunione”. 

Negli ultimi tempi, i più, hanno trovato elementi di distrazione da se stessi e, infine, da quel Dio che vuole liberare dalle angosce e dal peccato. Si preferisce allontanare le proprie paure piuttosto che affrontarle con chi ci vuol bene. È come se – passatemi l’esempio – ognuno di noi, si fosse steso su una panca piana e avesse posto tutti i propri pesi su un bilanciere e, con slancio, li avesse spinti verso l’alto, fuor di se; per poi riportarli a se, al proprio petto. Tutti lo facciamo in un modo o in un altro, ma ignoriamo che quel gesto è un circolo vizioso perché riporta tutto all’origine del problema: il proprio cuore. Invero, l’esercizio della preghiera è un innalzamento liberante dal cuore verso il cielo, perché il dialogo con il Padre è sempre autenticamente liberante.

E, allora, in questo momento cruciale, in una storica tempesta siamo chiamati a «reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri» (Papa Francesco, 27 marzo 2020). Per far ciò v’invito alla preghiera che il Signore stesso ci ha insegnato e che possiamo fare, giorno dopo giorno all’udire il suono delle campane e, un domani, nell’incontro con quell’amico inatteso che è Padre e vuole incontrarci nella Sua casa per guidarci verso la gioia senza fine.


La Preghiera del Signore

Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare

Luca 11,1

Troppe volte la preghiera è da tutti noi sottovalutata e, una liturgia bella e appariscente finisce per snaturare il vero senso dello stare insieme per pregare e incontrarsi con il Padre. Quando la liturgia ci immedesima, invero, in un clima di silenzio interiore che ci lancia dal cuore verso il cielo è, allora, che percepiamo in qualche modo il vero senso del pregare. 

«La preghiera è l’elevazione dell’anima a Dio o la domanda a Dio di beni conformi alla sua volontà» (CCC 2558-2565). Abramo nella comprensione del disegno di Dio fa della preghiera un’intercessione per i peccatori; Mosè ci dice che pregare è come un intrattenersi in un intimo «faccia a faccia, come un uomo con il suo amico» (Es 33,11); Gesù che imparò a pregare, secondo la tradizione ebraica, da sua madre, fa della sua vita una preghiera vivente al Padre. 

La Chiesa invita a vivere momenti di preghiera quotidiana e comunitaria e ci sollecita incessantemente alla preghiera vocale, alla meditazione e alla preghiera contemplativa. La forma perfetta di preghiera vocale è il Padre nostro. 

La preghiera è una consapevole richiesta confidente alla presenza e forza salvatrice di Dio e ci pone innanzi ad un regno non più caratterizzato dalla fatalità quanto da un senso profondo che diviene dono e sfida per vivere alla ricerca di Dio. 

Nel tempo che stiamo vivendo ci viene domandato di pregare e ancor più di dare senso e significato alla nostra preghiera. Domandiamoci se il nostro pregare è veramente motivato, se è creduto, oppure se è mosso dalla semplice necessità. Quante volte, negli ultimi anni siamo entrati in Chiesa per ringraziare piuttosto che per chiedere? 

La Chiesa c’insegna a pregare e lo fa attraverso la Sacra Scrittura in cui si ripete la preghiera che Gesù ci ha donato, il Padre nostro.  

L’orazione domenicale (espressione tradizionale) o Preghiera del Signore è la sintesi di tutto il Vangelo. Non è un caso se nel Battesimo e nella Confermazione viene “consegnata” proprio questa preghiera e, ancora, se nella liturgia eucaristica il Padre nostro diviene preghiera di tutta la Chiesa. 

E, allora, cosa vuol dire “Padre nostro”? Che cosa significa mentre preghiamo dire: “sia fatta la tua volontà” ? Come chiediamo “il pane quotidiano” e la liberazione “dal male”? 

Sulle orme del Catechismo della Chiesa Cattolica e degli scritti di Joseph Ratzinger, vorrei riportare i tratti fondativi della preghiera, nella speranza che possa giovare all’incontro personale con il Signore.   


Padre Nostro

Nessuno conosce il Padre, se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare

Matteo 11,27

Per comprendere la rivelazione del Padre sarebbe auspicabile che ognuno possa prendere tra le mani il Vangelo e leggere il passo di Matteo 11,25-30 e meditandolo cercare di comprendere il mistero della filiazione di Gesù e della sua relazione con il Padre. Ci possiamo accostare a Dio se lo facciamo con umiltà, con semplicità. Nessuno è escluso dalla conoscenza e rivelazione del Padre ed ecco perché Gesù, diversamente dagli scribi e dai farisei, si pone senza “pregiudizi” innanzi alle parole del Padre e le rende accessibili.

Il “Padre” è rivelato dal Figlio e conosciuto attraverso lo Spirito, ci insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica. 

In generale il «Padre nostro inizia con una grande consolazione; noi possiamo dire Padre. In questa sola parola è racchiusa la storia della redenzione. Possiamo dire Padre, perché il Figlio era nostro fratello e ci ha rivelato il Padre; perché per opera di Cristo siamo tornati ad essere figli di Dio» (R. Schneider). 

Dovremmo chiederci quante volte ci siamo rivolti a Dio ritenendolo come nostro padre; come il padre che abbiamo avuto o desiderato di avere. 

Ancor più in profondità, facendo attenzione a come iniziamo la preghiera possiamo rilevare che «la prima parola della preghiera del Signore è una benedizione, prima di essere un’implorazione» (CCC 2781). È una benedizione sapere che il Padre può essere adorato perché ci ha adottato come figli nel suo Figlio. 

Nella consapevolezza di essere stati adottati quali figli dovremmo avere «il desiderio e la volontà di somigliargli» e ciò è possibile se ci disponiamo come “bambini” (Mt 18,3).   

Questo “Padre” nella preghiera lo chiamiamo anche “nostro”. «Solo nel “noi” dei discepoli possiamo dire “Padre” a Dio, perché solo mediante la comunione con Gesù Cristo diventiamo veramente “Figli di Dio”. Così, questa parola “nostro” è decisamente impegnativa: ci chiede di uscire dal recinto chiuso del nostro “io”. Ci chiede di entrare nella comunità degli altri figli di Dio. Ci chiede di abbandonare ciò che è soltanto nostro, ciò che separa. Ci chiede di accogliere l’altro, gli altri – di aprire a loro il nostro orecchio, il nostro cuore. Con questa parola “nostro” diciamo “sì” alla Chiesa vivente, nella quale il Signore ha voluto raccogliere la sua nuova famiglia. Così il Padre nostro è una preghiera molto personale e insieme pienamente ecclesiale» (J. Ratzinger). 

E, allora, quando benediciamo il “Padre nostro” chiediamoci se siamo parte di una comunità parrocchiale, di un insieme di persone che pregano gli uni per gli altri, di un’assemblea orante che chiama Padre un Dio che vuol svelarsi e salvarci. 


Sia fatta la Tua volontà…

Aderendo a Cristo, possiamo diventare un solo Spirito con lui e così compiere la sua volontà; in tal modo essa sarà fatta perfettamente in terra come in cielo». 

Origene, De oratione, 26,3

Nella preghiera del Padre nostro “vogliamo” che sia “fatta” la sua “volontà”. È dunque importante comprendere cosa sia questa volontà. 

La tradizione del pensiero cristiano afferma che la volontà umana deve conformarsi sempre più alla volontà di un Dio creatore del mondo. L’aristotelismo di San Tommaso d’Aquino, pur sottolineando la superiore dignità della volontà quando ha per oggetto Dio, ribadisce la supremazia dell’intelletto, perché esso ha in sé la ragione stessa del bene al quale la volontà deve tendere (S. Th. I,82).  

            «Le Sacre Scritture partono dal presupposto che l’uomo nel suo intimo sappia la volontà di Dio, che esista una comunione di sapere con Dio, profondamente inscritta in noi, che chiamiamo coscienza» (J. Ratzinger). 

            L’attuale contesto storico ci porta sempre più verso una volontà che, libera, ci allontana dalla ricerca di quel volere di Dio per noi. La preghiera del Padre nostro ci invita “a fare la sua volontà come in cielo così in terra” e dunque ci pone innanzi a due poli: la terra e il cielo. La forza liberante della preghiera sta nella concretizzazione del volere di Dio nel mondo che circonda la nostra esistenza. Ciò è possibile se saremo capaci di attingere dal Signore e dalla forza della preghiera. La volontà del Padre è che «tutti gli uomini siano salvati» (1 Tm 2,3) e preghiamo proprio per unire la nostra volontà a quella del Figlio (CCC 2822-2827.2860). 

            Ma com’è possibile discernere ciò che Dio vuole? «È mediante la preghiera che possiamo discernere la volontà di Dio e ottenere la costanza per compierla» (CCC 2826). 

            Nel vangelo di Matteo (7,21-29) è ancor più chiaro il senso del fare la volontà di Dio. Gesù pronunzia delle parole in qualità di giudice e dichiara apertamente che l’appartenere al regno, la sottomissione a Dio, non possono esistere senza il compimento della sua volontà. Gesù in questo brano si pone contro gli operatori d’iniquità ovvero coloro che si poggiano solo ed esclusivamente sulla loro autosufficienza cancellando dal proprio orizzonte quel Dio che vuol essere incontrato nella preghiera. La volontà di Dio, invece, passa attraverso la preghiera e si tramuta in gesti concreti d’amore ispirati dal discernere con chiarezza ciò che Dio vuole.  

            Nel passo della preghiera che stiamo trattando, sostanzialmente, chiediamo di accostarci sempre più a Gesù per comprendere ciò che Dio vuole.  


Dacci oggi il nostro pane quotidiano…

Se ricevi il Pane ogni giorno, per te ogni giorno è oggi. Se oggi Cristo è tuo, egli risorge per te ogni giorno. In che modo? “Tu sei mio Figlio, oggi ti ho generato”. L’oggi è quando Dio risorge

Sant’Ambrogio, De sacramentis, 5,26

«Chiedendo a Dio, con l’abbandono fiducioso dei figli, il nutrimento quotidiano necessario a tutti per la propria sussistenza, riconosciamo quanto Dio nostro Padre sia buono al di là di ogni bontà. Domandiamo anche la grazia di saper agire perché la giustizia e la condivisione permettano all’abbondanza degli uni di sopperire ai bisogni degli altri»(CCC 2828-2834.2861). 

Il pane di cui abbiamo bisogno “oggi” è quello futuro, quello del mondo nuovo che ci dona il Signore. È il pane eucaristico. 

Come possiamo nutrirci dell’Eucarestia se siamo privati della santa messa quotidiana e domenicale? Attraverso la preghiera della comunione spirituale. Il fatto di essere privati, in questo momento della santa Messa deve lasciarci riflettere: tante volte ci siamo “scordati” della domenica, quale momento di comunione con Dio. 

Il pane quotidiano è anche la parola di Dio perché «non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4). Questa affermazione è la risposta che Gesù dà a satana riprendendo quanto scrive il Deuteronomio (8,3) e sta a ricordare che la vita corporale può essere sostenuta dalla parola vivificante di Dio. 

La santa Messa, di cui in questo periodo siamo privati, pone al centro della preghiera questo “nostro pane” di cui abbiamo bisogno e che domandiamo con un imperativo (“dacci”). Dobbiamo chiedere a Dio di darci quel pane che è parola e sostentamento per la vita eterna. Questo pane ci è donato dalla Chiesa nella sua più alta espressione che è la celebrazione eucaristica. San Cipriano affermava che «per questo preghiamo, affinchè il “nostro” pane, cioè Cristo, ci sia dato quotidianamente, affinché noi che rimaniamo e viviamo in Cristo non ci allontaniamo dalla sua forza santificante e dal suo Corpo».   

Che questa nostra esperienza, in cui siamo privati della santa Messa, possa essere motivo di crescita spirituale e di riflessione sul quando e sul come ci siamo accostati alle celebrazioni che la Chiesa dona a noi fedeli. 


Liberaci dal male…

E vidi un cielo nuovo e una terra nuova: infatti il cielo e la terra di prima erano passati, e il mare non c’era più

Apocalisse, 21,1

Nella letteratura biblica il male è, talune volte, identificato con il mare quale “contenitore” del male. Così, nell’Apocalisse troviamo che innanzi alla nuova Gerusalemme non vi sarà più il mare, il male. «Nelle traduzioni recenti del Padre nostro “il male”di cui si parla può indicare sia “il male” impersonale, sia “il Maligno”» (J. Ratzinger). 

Nella Genesi (3,1-8 e 3,9-24) le parole messe in bocca al male sono ritmate dalla calma, come per non generare dubbi, domande, sospetti. Le parole procedono gradualmente verso il loro fine, prima con una domanda sbagliata che la donna corregge; poi, togliendo il significato della punizione che accompagna il precetto divino, giunge alla grande rivelazione: «diventerete come Dio» e questa è la tentazione a cui l’umanità sempre ambisce. 

Anche nel libro di Giobbe troviamo un Dio che permette a Satana di mettere alla prova il gran servo di Dio, che verrà colpito nei suoi beni e nella sua discendenza ma anche nelle sue amicizie, che non sanno offrire nemmeno la consolazione del silenzio. Eppure le disgrazie che colpiscono Giobbe gli fanno fare la vera esperienza di Dio: «ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono». Il problema del male e della sofferenza, in questo libro, non è risolto con la teoria e la speculazione, ma con l’esperienza diretta dell’incontro. In Giobbe il problema si risolve in un approccio esistenziale di fede che anche noi possiamo affrontare nel Cristo che ci abbraccia dalla croce. 

Anche Gesù chiede al Padre «che ci custodisca dal maligno» (Gv 17,15) e la «nostra interdipendenza nel dramma del peccato e della morte diventa solidarietà nel corpo di Cristo, nella “comunione dei santi”» (CCC 2850). 

«Possiamo intendere questo ampliamento dell’ultima domanda del Padre nostro anche come esame di coscienza per noi – come esortazione a collaborare affinché venga infranto lo strapotere dei “mali”» (J. Ratzinger). 

Nella nostra richiesta di essere liberati dal male chiediamo, la liberazione dai mali di Satana: «i mali presenti, passati e futuri, di cui egli (Satana) è l’artefice o l’istigatore» (CCC 2854).   

Ciò che fonda la nostra preghiera, però, deve rimanere la supplica al Padre affinché non ci privi della possibilità di scoprire il volto di Cristo attraverso le opere che la Chiesa pone in essere. Solo quando ci poniamo con lo sguardo intelligente del fedele sappiamo che «resta centrale il pensiero che “veniamo liberati dai peccati”, che riconosciamo “il Male” come la vera avversità e che non ci venga mai impedito lo sguardo sul Dio vivente» (J. Ratzinger).   

Nel concludere questo breve “sussidio” mi vengono alla memoria le parole di un teologo svizzero che affermava: «L’ultima parola che ho da dire […] non è un concetto come la “grazia”, ma un nome: Gesù Cristo. Egli è la grazia, ed è lui l’ultimo, al di là del mondo, della chiesa, e anche della teologia. Non possiamo “catturarlo”. Ma con lui abbiamo a che fare. Ciò che mi ha occupato per tutta la mia lunga vita è stato dare sempre più rilievo a questo nome e dire: là…! In nessun nome c’è salvezza, se non in questo. E là appunto è anche la grazia. Là è anche l’impulso al lavoro, alla lotta; l’impulso alla comunione, all’essere insieme agli altri uomini. Là è tutto quanto ho provato nella mia vita, nella debolezza e nella stoltezza. Ma tutto è là» (K. Barth). 

Il mio augurio, per questa santa Pasqua è che tutti noi possiamo, un domani, volgere il nostro sguardo a quel “là” che è il Cristo che ci salva e ci attende. 


Il Vostro Parroco
Don Eugenio

Pasqua 2020