Con l’articolo di don Francesco Cosentino inizia oggi una nuova rubrica intitolata «Sabato italiano». Il titolo indica non solo la cadenza settimanale ma anche l’argomento affrontato nella rubrica: la crisi e le sfide della Chiesa italiana.
Lo spunto iniziale si ritrova nell’articolo del 22 febbraio scorso firmato da Pier Giorgio Gawronski sulle «Chiese vuote e l’umanesimo integrale» che ha provocato una serie di riflessioni di cattolici, laici e religiosi, partendo proprio dal dato dello svuotamento delle chiese. Da qui il titolo che rinvia al sabato, al Sabato Santo in particolare: è il giorno a-liturgico, della chiesa vuota, della crisi e dello smarrimento. Ma anche dell’attesa, del discernimento. È il giorno più buio ma che già prelude ai primi barlumi della mattina di Pasqua.
Qualche giorno fa, l’economista e giornalista Pier Giorgio Gawronski ha offerto dalle colonne di questo quotidiano un’interessante riflessione sulla secolarizzazione europea e sui suoi effetti dall’impatto a dir poco traumatico per il cristianesimo e per le Chiese.
Ci troviamo dinanzi a un termine — secolarizzazione — che nel tempo è andato evolvendosi e che, come afferma il filosofo Marramao, ha conosciuto una continua metamorfosi di significato, includendo oggi una certa molteplicità di aspetti. Ciò premesso, l’analisi di Gawronski tocca un aspetto importante: non si tratta di un fenomeno “esterno” al cristianesimo, che riguarda cioè semplicemente la sua relazione con il mondo e con la modernità, ma di qualcosa che interessa il modo di essere del cristianesimo e il suo tradursi nella pratica ecclesiale. Occorre chiedersi, sulla scorta di quanto affermava Italo Mancini, “con quale cristianesimo” possiamo affrontare l’inarrestabile ondata della secolarizzazione europea. Gawronski riprende l’immagine della prima comunità cristiana, il cui punto d’aggancio principale della pratica religiosa era la relazione di amicizia e fraternità tra i suoi membri.
L’analisi contribuisce a spostare l’asse della riflessione sulla secolarizzazione dall’aspetto puramente sociologico a quello che riguarda la vita affettiva e interiore delle persone. La secolarizzazione, infatti, non ha a che fare soltanto con un dato empirico, con i numeri e la rilevanza sociale e politica della religioni e delle sue istituzioni, bensì con i significati più profondi che ci portiamo dentro, i simboli interiori della nostra vita, i valori che coltiviamo. Parafrasando il mai dimenticato prof. Gallagher: il combattimento si è spostato oggi più in profondità, dall’esterno all’interno, dalle idee alle disposizioni interiori, dai cambiamenti visibili delle istituzioni sociali ai movimenti più profondi della sensibilità spirituale. Gallagher leggeva così l’apporto offerto da Charles Tay-lor sul tema, affermando che l’indifferenza al problema di Dio e l’abbandono sempre più massiccio della pratica religiosa riguardano una “ferita” dell’immaginazione: la secolarizzazione restringe il nostro desiderio, rimpicciolisce il nostro io e i nostri desideri, condizionando il nostro modo di immaginare la vita.
Neanche la società in cui operarono gli Apostoli era cristiana, eppure quella fu la stagione migliore dell’evangelizzazione. Ciò su cui soffermarci, piuttosto, riguarda le condizioni di possibilità del credere, cioè quella disposizione interiore di partenza con cui ci mettiamo dinanzi alla proposta della fede. Per dirla con una parabola evangelica: il terreno in cui il seme del Vangelo viene seminato, che può essere, prima ancora della semina, “disponibile” oppure sassoso e spinoso. Questo terreno subisce oggi quella che il teologo tedesco Metz ha definito la secolarizzazione della coscienza, cioè la superficialità delle visioni della vita, la compulsività del consumismo, la perenne insoddisfazione per una vita frammentata, l’impetuosa accelerazione dei nostri ritmi di vita, il criterio della merce di scambio che ha ormai svuotato l’uomo di sogni, desideri e speranze.
C’è bisogno allora di un’esperienza e una pratica cristiana che — come afferma Gawronski — spezzi questo circolo e generi una nuova qualità delle relazioni amicali e fraterne, ma ciò non può realizzarsi “dentro” la forma, il modello e lo stile attuale di Chiesa, di parrocchia e di pastorale. Per citare uno degli ultimi libri di Armando Matteo: non si può pensare che le cose cambino senza però cambiare nulla né delle nostre parrocchie e né della nostra pastorale.
Per creare quel senso di appartenenza e di comunità, che quasi fa sorgere l’esperienza cristiana da quella “precedente” delle relazioni umane, non ci si può limitare a radunarsi in Chiesa. Prima, questo gesto era l’espressione domenicale o festiva di qualcosa che già si viveva nelle case e nei quartieri, come ben afferma Gawronski; oggi, le persone che arrivano spesso non si conoscono tra di loro, hanno un legame debole o sfilacciato, sono per lo più turisti solitari.
È in questo contesto che, personalmente, penso a come bisognerebbe interrogarsi di più sulla profezia di Papa Francesco. Una “Chiesa in uscita” è infatti una Chiesa che esce per “fare Chiesa” nei luoghi della vita. È una Chiesa che non pretende più di organizzare le forme dell’annuncio e della pastorale semplicemente creando occasioni — da tenersi tutte nell’edificio ecclesiale — in cui invita gli altri, ma si sposta cercando di creare “reti di relazioni” tra le persone. È una Chiesa, cioè, che cerca di generare esperienze di amicizia, di preghiera comune e di condivisione dei beni, uscendo da se stessa e “decentrandosi”, cioè cercando di riattivare quei “piccoli villaggi” di relazione umana che oggi si vanno perdendo.
In questo senso, la stessa pandemia ha aperto nuove possibilità per ripensare l’annuncio del Vangelo: è possibile avviare in modo più sistematico e organizzato la preghiera e la liturgia nelle famiglie? È possibile articolare la catechesi dei ragazzi uscendo definitivamente dal classico metodo scolastico che li rinchiude in aule parrocchiali simili a quelle scolastiche, e proporre percorsi in cui anche i genitori si rendono protagonisti attivi, qualche volta nelle stesse case o in concrete esperienze vissute nel quartiere? È possibile iniziare le persone a una formazione biblica e spirituale che li renda capaci di vivere l’esperienza con Dio non soltanto nella moltiplicazione delle Messe o di atti devozionali, bensì nella Liturgia delle Ore, nell’ascolto della Parola e lectio divina? E cosa si può fare per vivere esperienze di cristianesimo — con la preghiera come con le opere di carità — nelle case, nei condomini, nei quartieri? Si può pensare a piccoli gruppi di cristiani — anche e finalmente senza il prete — che portano avanti un cammino di condivisione della Parola di Dio e dei travagli quotidiani della vita?
Non si tratta di idee nuove, ma di trovare il modo per avviare proposte che vadano oltre le occasioni generiche e spesso anonime della parrocchia di città; proposte creative che, con linguaggio fresco, favoriscono la relazione e l’amicizia tra piccoli gruppi di persone, le quali pian piano condividono una chiacchierata, qualche domanda, qualche comune fatica, un pranzo o una cena. Non c’è bisogno di massimi sistemi: il Vangelo spesso ci racconta questa dimensione domestica in cui Gesù, tra i profumi della cucina, incontra le persone, le ascolta, le tocca nel profondo, le guarisce.
C’è bisogno di una Chiesa che esce dalle chiese. Di un’esperienza cristiana strutturata su più livelli, che pur non mancando di offrire alcuni servizi essenziali della trasmissione della fede, riesce a intercettare i luoghi e i ritmi della vita quotidiana. La celebrazione quotidiana o “l’andare in chiesa” dovrebbe essere il punto di arrivo e di sintesi di un’esperienza vissuta prima e altrove.
Un Sinodo della Chiesa italiana, lungi dal trasformarsi in un “evento” ecclesiale esteriore, potrebbe avviare una discussione franca e serena su come avviare un tale ripensamento pastorale.
di Francesco Cosentino