Come recita il titolo, il libro di Lanfranco Norcini Pala (San Paolo Editrice, Milano 2020) analizza il mutato rapporto tra informazione e consenso nell’era del web e dei social network, analizzando alcuni rischi e derive, in particolare l’accentuata tendenza a cercare solo conferma delle proprie opinioni – quello che l’autore chiama «l’arena confermativa» (p. 67) – e a un approccio superficiale alle problematiche sempre più complesse del nostro tempo.
Prendendo spunto da un’affermazione provocatoria di Umberto Eco – «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività […], ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel» (p. 37) – l’autore mostra come la possibilità di dire qualunque cosa in rete non sia segno di libertà di espressione, ma piuttosto di livellamento.
Inoltre, questa forma di comunicazione tende a ridurre il discorso a brevi annotazioni impressionistiche e a regredire culturalmente. (Se un tempo i discorsi dei politici contavano decine di migliaia di parole), oggi i post che fanno maggiormente opinione su Facebook (66%) non superano gli 80 caratteri; la multimedialità colpisce l’attenzione, ma resta alla superficie delle cose: «Il cervello processa i contenuti video 60.000 volte più rapidamente dei testi. La maggior parte dei primi dieci video più visti in Europa nel 2018 sulla piattaforma You Tube non supera i 2 minuti […]. In Italia gli utenti preferiscono guardare video che durino in media fra i 30 e i 50 secondi» (pp. 38 s).
Da qui una diminuzione anche del tempo dedicato alla lettura di un testo (8 secondi in media, a fronte dei 12 secondi nel 2000), che rischia di ridurre il dibattito su questioni complesse – con conseguenze a volte irreversibili, come nel caso della Brexit – a colpi di slogan e titoli colorati. L’autore riprende una metafora utilizzata da Nicholas Carr sul differente impatto che tutto ciò presenta sui processi cognitivi: «Una volta ero un subacqueo nel mare delle parole. Adesso sfreccio sulla superficie come ragazzino in acquascooter» (p. 41). Si manifesta quindi la tendenza a una pericolosa omologazione culturale su tematiche fondamentali per il vivere comune, che può diventare un grave pericolo per lo stato di salute delle democrazie delle società occidentali.
Alla luce di queste analisi, l’autore si chiede come sia possibile invertire tale tendenza, dato che il web rimane un punto di non ritorno. La parte finale del libro cerca di elaborare possibili proposte, come, ad esempio, la promozione del giornalismo di qualità: i media esercitano di fatto una funzione di controllo, mettendo in guardia da un uso improprio dei social e da possibili manipolazioni dei dati a disposizione, come è accaduto nel corso dello scandalo di Cambridge Analytica.
Vi è poi il ruolo indispensabile delle istituzioni, che devono tutelare il bene comune della collettività, obbligando i grandi gestori dei siti e dei canali social a vigilare sui contenuti postati. […].
Vi è infine il compito del mondo educativo e sociale – scuola, famiglia, associazioni culturali e religiose -, perché l’educazione al digitale divenga sempre più oggetto di specifici curricula (p. 129).
La sfida deve porsi su un altro piano, come quello della promozione degli aspetti etici del web che favoriscono lo scambio, il rispetto e l’impegno collettivo […] (Betty Varghese, La Civiltà Cattolica, n. 4095 del 6/20 febbraio 2021, pp. 307-309).