di MIRABILIA ORVIETO

Nel documento di Preparazione al Sinodo, semplice e ben approfondito, corredato tra l’altro da una buona grafica per facilitarne la lettura, si legge: “…vivere un processo ecclesiale partecipativo e inclusivo, che offra a ciascuno – in particolare a quanti per diverse ragioni si trovano ai margini – l’opportunità di esprimersi e di essere ascoltato per contribuire alla costruzione del Popolo di Dio“.

Qualcuno dirà: ma chi sono questi che stanno ai margini? Cosa avrebbero da dire oggi alla Chiesa? Sicuramente parlerebbero delle incomprensioni e delle difficoltà che hanno incontrato, di situazioni in cui non sono stati ascoltati o privati della loro dignità e dei loro diritti, di esperienze di isolamento e di emarginazione dove si sono visti giudicati e condannati ingiustamente. Come rispondere a tutto questo? Cristo non ha forse preso su di sé le colpe e le ingiustizie degli uomini offrendole a Dio? Ebbene, non si può strumentalizzare il Vangelo. La separazione tra fede e giustizia ha sempre confinato il Vangelo stesso in un rapporto personale e privato con Dio, aggirando quello che è il vero problema, vale a dire la relazione con gli altri. 

La fede diventa così l’alimento per devoti e persone pie, mentre ci si imbatte ogni giorno in una forma di ‘disattenzione’ verso il prossimo sottolineata molto bene nella parabola che segue: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione“. 


Il buon Samaritano, Van Gogh

Il racconto continua con il buon Samaritano, che i Giudei ritenevano un pagano e quindi lontano da Dio, prodigarsi per soccorrere l’uomo e affidarlo alle cure di una locanda, pagando tutte le spese. Cosa vuol dire? Che chi pensa di essere vicino a Dio, come il sacerdote e il levita della parabola, è in realtà paradossalmente lontano dal prossimo. 

Il comportamento dei due uomini rivela infatti una grande verità. Finché il Vangelo viene annunciato nelle chiese non causa alcun problema perché siamo tutti dei ‘buon cristiani’, ma quando si tratta di tradurlo in scelte umane, sociali, politiche e civili concrete, c’è subito chi fa finta di niente girandosi dall’altra parte. Non si dice forse che siamo tutti peccatori? Non rimane altro che andare dal prete a confessare le nostre colpe! Ma la condanna è che si ricomincia daccapo, o meglio si continua a vivere in un disperato e indomabile egoismo anche se si va in chiesa. 

La morale non è dunque di condannare i malvagi (i briganti), piuttosto nel rimanere indifferenti di fronte al male(il sacerdote e il levita) passando oltre la vita di chi è stato trattato ingiustamente, scavalcandolo “dall’altra parte” come dice la parabola, senza muovere un dito, senza far niente per aiutarlo. Il Vangelo non dà mai giudizi morali sulle persone ma dice chi sono. Quei due religiosi non sono peggio di altri, perché si mostrano crudeli e insensibili, ma perché vivono mettendo i doveri verso Dio davanti ai doveri verso gli uomini. Il sacerdote e il levita erano discesi da Gerusalemme e, secondo le usanze, si erano ‘purificati’ nel tempio per cui la legge proibiva loro di entrare in contatto con un ferito o un morto per non ridiventare persone impure. Proprio agli osservanti della legge, in quanto ‘cultori della pietà’, era richiesta quell’umanità di chi si professa vicino a Dio, di chi lo rappresenta pubblicamente, ma l’uomo assalito dai briganti rimane profondamente deluso perché per loro, per queste persone, l’amore a Dio è totale, mentre l’amore al prossimo è relativo, secondario, marginale.

Si apre così un dilemma: o osservare la legge, o soccorrere il pover’uomo. Cos’è più importante il bene di Dio o del prossimo?  Ovviamente il bene di Dio e così lasciano morire il prossimo, abbandonandolo mezzo morto. Chi è veramente vicino agli altri? Chi va oltre la legge e pratica la compassione, come il Samaritano, che si preoccupa di chi è stato maltrattato. Certamente occorre avere a cuore le persone, dimostrare una rettitudine morale, una ‘purezza’ di cuore, una sollecitudine che non si compra al mercato. Essere oggi il sacerdote e il levita della parabola non significa appartenere a una particolare categoria di persone, ma incarnare una certa mentalità, un atteggiamento, un modo di essere e di agire che mette al centro se stessi ed esclude gli altri mettendoli ai margini.

Ecco dunque lo scopo del Sinodo, rimettere al centro l’essenziale, rimettere al centro le persone. E questo avviene se si passa da una chiesa piramidale a una chiesa ‘concentrica’ dove ognuno può liberamente dire ciò che pensa senza aver paura che le sue parole vengano mal giudicate, parole che invece dovrebbero risuonare come fa un sasso quando viene gettato nello specchio d’acqua.

Ascoltare significa entrare nel merito delle cose senza sfuggirle o negarle, significa rispondere alle lettere perché c’è ancora qualcuno che ha qualcosa d’importante da dire e spera di essere ascoltato. Non c’è lo Spirito Santo che dall’alto risolve tutti i problemi, perché lo Spirito Santo soffia laddove si ha la capacità di dialogare. E pensare che nel monachesimo antico la ‘conversione’ veniva detta anche ‘conversazione’. Sinodo e fraternità sono sinonimi. L’errore è cedere alla tentazione di ridurre la Chiesa alla sfera puramente religiosa, spirituale, lasciando ad altri l’onere umano e civile di accogliere e amare, mentre il Vangelo invita tutti ad essere quel lievito(Matteo 5,14) che non tace mai di fronte alle ingiustizie ma va nelle piazze e le denuncia per primo (Matteo 10,27), quel sale che dà sapore al mondo e lo dilata per renderlo sempre più umano e attento ai bisogni e alle sofferenze degli uomini (Luca 10,25-37).