[…] Nei loro saggi discorsi gli animali non nascondono la delusione per gli umani. Come il popolo delle api, ad esempio, che si esprime così: «Siamo state generose del nostro tempo e delle nostre arti, perché speravamo che l’uomo imparasse che c’è una parentela tra la terra e il cielo, la psiche e la carne, il corpo e lo spirito e questo universo si regge sui loro legami» (p. 19).

La pandemia come sintomo

​La descrizione della pandemia e della quarantena rielabora immagini viste nei giorni del lockdown generalizzato. La vita dell’uomo sulla terra assume i toni della desolazione biblica: «Chi non muore è come se morisse, sfinito, oppresso dal terrore, annientato dagli orrori che come acque lo circondano tutto il giorno e tutti insieme lo avvolgono. Lontano dagli amici e conoscenti, gli sono compagne solo le tenebre» (p. 96). Come un animale selvaggio, l’uomo ora non esce dalla sua tana (cfr. p. 104), ma è oggetto di considerazioni ampie e profonde. La pandemia è chiaramente sintomo di qualcosa di più profondo, che richiede una vera e propria «conversione».

​Ma – leggiamo – già «da tempo l’uomo percepiva l’estinguersi delle piante e degli animali, delle culture e dei linguaggi, dei costumi, dei mestieri e delle storie. E perciò era naturale che la sua anima provasse già una sensazione di isolamento, di nostalgia e di lutto. Perché questo universo è un unico essere vivente che contiene in sé tutti gli animali» (p. 117). Le anime degli uomini erano, in realtà, malate da molto prima della grande quarantena, «ma non sembravano accorgersi che la loro depressione era dovuta alla distruzione della terra». L’epidemia, la morte, lo svuotarsi del mondo «avevano fatto risorgere la memoria dell’arca che era in loro e li avevano ricongiunti alla grande anima in cui ogni animale è immerso» (p. 117). 

​Il libro si chiude con l’emergere di «nuovi giusti», che assumono in sé, anche fisicamente, parte della forma animale, frutto di una metamorfosi. Essi sono ovunque, «confusi tra la gente comune, disseminati in tutto il mondo, persi in mille lavori e fatiche e problemi, a ricostruire umilmente, finché dura la terra, una nuova arca» (p. 140).

Una favola neoplatonica

​Il libro si chiude quando si spalanca davanti al lettore un abisso che fa comprendere come la fiaba selvaggia che ha letto in realtà sia un tessuto ben ordito ed estremamente complesso di testi e riflessioni […] frutto di una profonda elaborazione culturale e di grandi letture, che vanno dai testi biblici ai pensatori classici latini e greci e a tanti scrittori moderni […]. Filelfo, l’autore della favola selvaggia, si muove mescolando fonti disparate, un patchwork nobile, ben consapevole che la tradizione si perpetua nel mito. E in questa elaborazione profonda – e da valutare criticamente – sta uno degli aspetti più interessanti de L’assemblea degli animali: la costruzione di un mosaico a tessere molto suggestivo, che comunica sia il disagio della psiche umana causato dalla rimozione antropocentrica della natura sia la necessità di una forma di fratellanza tra genere umano e animale. (P. Antonio Spadaro S.I., «L’assemblea degli animali». Una favola selvaggia, La Civiltà Cattolica, 20 feb/6 mar 2021, pp. 398-401).