27 Febbraio, 2021

di Francesco Occhetta

L’amicizia è spesso considerata una forma limitata di amore, un sentimento molto più debole e non impegnativo. È certamente meno celebrata e cantata rispetto all’amore, ma nella vita di ogni persona si rivela come una dimensione indispensabile, soprattutto nei momenti di crisi in cui ci si chiede: quale senso avrebbe la mia vita senza i miei amici? 

I veri amici, in senso aristotelico, si offrono reciproci benefici; per dirlo con le parole del filosofo di Stagira: «É proprio dell’amico piuttosto fare il bene che riceverlo, […] è proprio dell’uomo buono e della virtù il beneficare». Secondo Aristotele una delle ragioni per cui vale la pena coltivare amicizie sarebbe avere persone a cui fare del bene. È per questa ragione che persino gli uomini perfettamente felici hanno bisogno di amici, poiché senza di loro sono incompleti. Per questo definisce l’amicizia come «cosa necessarissima per la vita. Infatti nessuno sceglierebbe di vivere senza amici, anche se avesse tutti gli altri beni» (Etica Nicomachea, Libro VIII, cap. I). 

L’amicizia si mostra dalle piccole cose, senza bisogno di essere spiegata. È stato scritto che l’amico «è colui che ci rende giustizia», senza essere però tribunale e giudice delle nostre azioni. Due amici possono avere cammini molto diversi, fino ad evolvere in direzioni religiose o politiche diverse, ma la forza sta nell’«accogliere tali cambiamenti come un’occasione […]. L’amico non è soltanto colui che mi arricchisce, può essere anche colui che mi interroga, mi critica, mi rende più povero. Potrà essere che viene a ricordarmi che il mio itinerario non è l’unico possibile e che, proprio a partire da ciò che ci unisce, sono possibili altre scelte spirituali, intellettuali o esistenziali» (Aa.vv, L’avventura dell’amicizia, Magnano (Bi), Qiqajon, 2007, cit., p. 17). 

Questa «avventura esistenziale» è anche la luce e il sapore delle relazioni sociali e politiche. Ne ribalta le logiche perché nello spazio pubblico, tra politici o colleghi, ci si allea con altri per far fronte a nemici comuni, rischiando di vivere sempre “contro” e mai in “favore” di qualcosa e qualcuno. Ciò che trasforma profondamente una società sono esattamente le caratteristiche intrinseche dell’amicizia: la fedeltà, l’accoglienza, la parità, la benevolenza e la gratuità. Ma esiste anche un’altra peculiarità dell’amicizia: la presenza, un gesto capace di andare al di là di qualsiasi parola.

La banalità del male, invece, inizia quando si nega l’amicizia sociale: omissioni e gesti, parole e alleanze perverse, anche se in apparenza innocue, possono essere come la fiamma di un fiammifero che, una volta innescata la miccia, è capace di devastare intere foreste.

Quando la costruzione dell’amicizia sociale si eclissa ritornano i genocidi, come quello del Rwanda, in cui nel 1994 in soli 100 giorni vennero massacrate tra le 800 mila e 1 milione di persone; gli stermini, come quelli dell’11 luglio 1995 a Srebrenica, in cui in 72 ore vennero ammazzati 8.000 bosniaci; i campi profughi del Medio Oriente, gli orrori nei campi della Libia, le guerre senza fine in molti Stati dell’Africa e tante altre violazioni in molte parti del mondo.

Oppure quando un Paese è costretto a piangere la barbara uccisione dell’ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e del loro autista Moustaphà Milambo che stavano donando la loro vita per gli altri costruendo la pace in un luogo che ne ha perso la memoria della pace e pensa possibile solo la guerra. In questo senso sono paradigmatiche le parole del Cardinale De Donatis nell’omelia delle esequie: «In questo giorno sentiamo come nostra l’angoscia di tre famiglie, di due Nazioni e dell’intera famiglia delle Nazioni. […] Angoscia perché manca la pace tanto desiderata; angoscia perché vi sono ancora troppi cuori di uomini che, invaghiti dal denaro e dal potere, tramano la morte del fratello. Angoscia perché le promesse di giustizia sono disattese».

Sembra una provocazione, ma l’alternativa alla notte è la luce dell’alba: guerra o pace, armonia o conflitto, tertium non datur. Questa luce è rappresentata dal bene insito nella relazione dell’“amicizia sociale” che il mercato non può vendere ma che, nell’ultima enciclica sociale della Chiesa, Francesco utilizza 14 volte, definendola anzitutto come il modo per risolvere i conflitti. «Più volte ho proposto “un principio che è indispensabile per costruire l’amicizia sociale: l’unità è superiore al conflitto. […] Non significa puntare al sincretismo, né all’assorbimento di uno nell’altro, ma alla risoluzione su di un piano superiore che conserva in sé le preziose potenzialità delle polarità in contrasto” […] in un ambito dove i conflitti, le tensioni e anche quelli che si sarebbero potuti considerare opposti in passato, possono raggiungere un’unità multiforme che genera nuova vita» (Fratelli tutti, n. 245).

C’è anche chi sostiene che bisogna stare con i piedi per terra, perché nemmeno il Nuovo Testamento dà spazio a storie di amicizie. Invece nel Vangelo di Giovanni troviamo le parole con cui Gesù definisce, in termini di amicizia, il suo rapporto con i discepoli. Quell’amicizia comunitaria è la prima forma di amicizia sociale, quei dodici uomini hanno cambiato il mondo: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto quello ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere anche a voi» (Gv 15, 15). Dio chiama l’uomo: amico. Secondo il testo, questa è un’amicizia offerta come dono al discepolo, che, nella sua libertà, è chiamato ad accettarla e a viverla. Ci sarebbe di più, ed è proprio la continuazione del Vangelo di Giovanni a svelarci il valore assoluto: «Non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici». 

L’amicizia sociale non arriva a chiedere di vivere questo livello, rimane però una forma di rispetto e di riconoscimento dell’altro. L’Enciclica Fratelli tutti ritiene che «per rendere possibile lo sviluppo di una comunità mondiale, capace di realizzare la fraternità a partire da popoli e nazioni che vivano l’amicizia sociale, è necessaria la migliore politica, posta al servizio del vero bene comune. Purtroppo, invece, la politica oggi spesso assume forme che ostacolano il cammino verso un mondo diverso» (n. 154). Anche gli attuali giudici della Corte Costituzionale stanno ridefinendo, attraverso Instagram, una delle caratteristiche dell’amicizia sociale: la gentilezza.

Per costruire l’amicizia sociale, intesa come processo politico, occorre passare per la via stretta delle comunità e aiutare le popolazioni e le culture a porsi una domanda radicale: «Chi è la persona titolare di diritti?». La risposta a questa domanda emerge nelle soluzioni pratiche, ad esempio nel modo in cui uno Stato rispetta gli immigrati, i carcerati, i poveri, le famiglie bisognose, i bambini abbandonati, le donne violentate, gli anziani, i rifugiati e gli sfollati che sono circa 45 milioni. L’Italia può dirsi rispettosa di questa nuova etica?

Esiste una via d’uscita: credere, insegnare e testimoniare che la costruzione dell’amicizia sociale, che fonda diritti e doveri, possa costruire un mondo migliore. Occorre ricominciare da «posti piccoli, vicino a casa, il quartiere in cui si vive, la scuola che si frequenta, la fabbrica, il campo o l’ufficio in cui si lavora», come ricordava Eleanor Roosevelt, una tra i protagonisti della Dichiarazione dei diritti dell’Uomo del 1948. 

Roger Schutz, fondatore della comunità di Taizé, aggredito e ucciso da una squilibrata il 16 agosto 2015 mentre pregava, nel suo diario dichiarava: «Un fratello mi scrive: in questi tempi in cui Dio ci mette alla prova per osservare il nostro grado di amicizia con lui, le amicizie che viviamo con gli uomini e con i nostri fratelli assumono una dimensione di eternità». Ed è così anche per noi. Ma se davvero desideriamo che l’amicizia sociale illumini la nostra convivenza, ciascuno dovrà fare la propria parte.