di Francesco Occhetta
«Tutti […] vogliono vivere felici, ma hanno l’occhio confuso quando devono discernere ciò che rende felice la vita. Giungere ad una vita felice è impresa difficile a tal punto che ciascuno, se appena esce di strada, se ne allontana tanto più, quanto più in fretta cammina». Il noto passo di Lucio Anneo Seneca (La vita felice, 1,1) può essere considerato l’epigrafe dell’anno che verrà.
Tutti si chiedono dove andare e quali scelte fare per essere felici, ma nemmeno la ricchezza di un Paese può produrre felicità. È nota l’esperienza dell’infelicitàquando, per esempio, non si ha un lavoro o non si può essere curati negli ospedali, quando la scuola non educa e i legami affettivi e sociali si rompono. Più in generale per vivere felici cosa occorre fare in una società caratterizzata da «relazioni a tempo» e da ritmi frenetici? Si pensa di essere felici attraverso le tante esperienze “usa e getta” che vanno da quelle affettive e relazionali a quelle sociali e politiche dell’appartenenza ad associazioni, partiti e così via. Ma le «relazioni a consumo» generano una cultura «a basso impegno» le cui conseguenze hanno però risvolti seri.
L’uomo contemporaneo è così disposto ad annullare il passato per «“rinascere”, acquistare un io diverso e più attraente scartando quello invecchiato, logoro e indesiderato, “reincarnarsi” in una persona totalmente diversa, ricominciare da un “nuovo inizio”», sostiene Bauman (L’arte della vita, p. 19). Così la felicità rischia di trasformarsi in un abbaglio: «Fuggire dal proprio io, e acquistarne un altro su ordinazione» e poi accontentarsi della “felicità a consumo”, come avere il tampone negativo o avere superato un test di un concorso. Limitarsi a queste esperienza, però, rimane una chimera che nega la felicità possibile. Per vivere l’esperienza della felicità come possiamo dare le ali a ciò che ci blocca a terra come un macigno sia a livello personale sia a livello sociale?
Lungo la storia il significato di felicità è cambiato a seconda delle culture e del tempo. Aristotele nella Retorica (I A, 5, 1360b) definisce la felicità come «buona condotta di vita congiunta alla virtù», «autosufficienza di vita». Per formare l’ateniese felice c’erano però precise condizioni «interiori» ed «esteriori»: «nobili origini, amici numerosi e buoni, ricchezza, figli buoni e numerosi, salute, bellezza, forza, statura elevata, capacità atletiche, fama, onore, fortuna, virtù» (p. 37). Anche Marco Aurelio nel suo trattato, Pensieri, individua alcuni princìpi per poter vivere felici: l’integrità, la dignità, il duro lavoro, l’abnegazione, l’appagamento, la frugalità, la gentilezza, l’indipendenza, la semplicità, la discrezione, la magnanimità.
Secondo il gesuita Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955), geologo e paleontologo, la felicità dell’uomo è inscritta nella vita del mondo e si armonizza nella sapienza e nel ritmo della creazione. La felicità piena può essere vissuta scegliendo di vivere tre esperienze: la creatività, l’amore e l’adorazione. Se si presta attenzione, si può notare come questi termini siano scomparsi dal vocabolario pubblico: è raro sentire parlare, soprattutto chi ha responsabilità pubbliche o di impresa, di creatività, di amore o di adorazione.Invece queste parole disvelano il senso della felicità che non è l’esperienza della risata o della spensieratezza, ma dell’assunzione piena della vita nel suo senso più profondo, senza volerlo sfuggire o rimuovere.
La lettera Sulla felicità è stata scritta nel 1942, quando Teilhard de Chardin era stato esiliato in Oriente e stava attraversando un momento buio e duro della sua storia personale[1]. Eppure, mentre vive il suo momento più profondo di negazione della felicità, scrive parole luminose per tutti. L’autore paragona la vita degli uomini a una scalata per raggiungere la vetta di un monte.Tuttavia, prima di incominciare l’impresa si formano tre gruppi: gli stanchi, i buontemponi e gli ardenti: «Tre tipi di Uomo, che ciascuno di noi porta in germe nel profondo di sé stesso, e fra i quali, da sempre, si divide l’Umanità che ci circonda».
I primi rimangono a guardare la vetta dalla camera di albergo, la pigrizia e l’ozio li bloccano: durante la loro vita hanno avuto senza dare nulla in cambio, anzi pretendono sempre e solo di consumare esperienze di felicità senza, però, costruirla. Il secondo gruppo invece è contento di partire… ma «il sole brilla, la vista è bella. Ma perché salire più in alto? Non è meglio godersi la montagna dove ci si trova, in mezzo ai prati o nel bosco? E si sdraiano sull’erba o esplorano i dintorni, aspettando l’ora del pic-nic». Ci sono poi gli uomini del terzo gruppo, i veri scalatori, loro «non staccano gli occhi dalle cime che hanno deciso di raggiungere. E ripartono in avanti».
Sul primo gruppo, quello degli stanchi (o dei pessimisti), Teilhard de Chardin scrive parole su cui riflettere: «Per questa prima categoria d’uomini, esistere è uno sbaglio o un fallimento. Siamo malamente impegnati, e di conseguenza si tratta di abbandonare il gioco, il più abilmente possibile. Portato all’estrema, e metodicizzato in una dottrina sapiente, questo atteggiamento sfocia nella saggezza hindù, per la quale l’Universo è un’illusione e una catena, o in un pessimismo schopenhaueriano. Ma in modo più smorzato e comune, la stessa disposizione si trova e si rivela in un mare di giudizi pratici che ben conoscete. “Che senso ha cercare? Perché non si lasciano i selvaggi alloro mondo selvaggio e gli ignoranti alla loro ignoranza? Che cosa vogliono dire la Scienza e la Macchina? Non si sta meglio stesi che in piedi? Morti invece che coricati?” Tutto questo significa, almeno implicitamente, che è preferibile essere di meno che essere di più; meglio di tutto, non essere affatto». Questa è la felicità di tranquillità: «Nessuna noia, nessun rischio, nessuno sforzo. Diminuiamo i contatti, limitiamo le necessità – abbassiamo le luci – rientriamo nella nostra conchiglia. L’uomo felice è quello che penserà, sentirà e desidererà di meno».
C’è poi il secondo gruppo, quello dei buontemponi (o dei gaudenti) «è senz’altro meglio essere che non essere. Ma, stiamo attenti, «essere» prende allora un senso tutto particolare. Essere, vivere, per i discepoli di questa scuola, non è agire, ma godersi il presente. Godere ogni momento e di ogni cosa, gelosamente, senza perdere nulla, e soprattutto senza preoccuparsi di cambiare atteggiamento: in questo consiste la saggezza. Venga pure la sazietà, ci si rivolterà sull’ erba, ci si sgranchirà le gambe, si cambierà posizione. Non si rischia nulla per il futuro, a meno che per un eccesso di raffinatezza, non ci si avveleni godendo del rischio per il rischio, per gustare il piacere di osare o sentire il fremito della paura».
Vivere per consumare la felicità riproduce a livello sociale e politico l’antico edonismo pagano di Epicuro; con questo gruppo è quasi impossibile costruire bene comune perché per auto-mantenersi sono disposti a tutto. Questa è la “felicità di piacere” che ci fa distendere il più possibile, come la foglia ai raggi del sole, quando cambia posizione per sentire di più: «ecco la ricetta della felicità. L’uomo felice è quello che saprà gustare l’istante, che tiene fra le mani nel modo più completo».
Infine, ci sono gli ardenti. «Qui mi riferisco a quelli per cui la vita è un’ascensione e una scoperta. Per gli uomini che formano questa terza categoria, non solo è meglio essere che non essere, ma c’è sempre la possibilità – ed è l’unica che interessi – di diventare qualcosa di più. Per questi conquistatori appassionati d’avventure, l’essere è inesauribile… come un fuoco di calore e di luce, al quale è possibile avvicinarsi sempre più. Si possono canzonare questi uomini, trattarli da ingenui o trovarli noiosi. Ma dopo tutto sono loro che ci hanno fatto, e che preparano la Terra di Domani».
Questa è la felicità di crescita o di sviluppo. Per chi ne fa esperienza «la felicità non esiste né ha valore per sé stessa, cioè come oggetto che possiamo inseguire e di cui possiamo impadronirci, ma non è altro che il segno, l’effetto e come la ricompensa dell’azione convenientemente guidata. “Un sottoprodotto dello sforzo” diceva Aldous Huxley. Non basta dunque, come suggerisce il moderno edonismo, rinnovarsi in un modo qualsiasi per essere felici. Nessun cambiamento beatifica (rende felici) a meno che non si agisca avanzando e in salita». Ecco l’insegnamento: l’uomo felice è colui che, senza cercare la felicità, trova la gioia nell’atto di giungere alla pienezza e al punto estremo di sé stesso, sbilanciandosi in avanti, oltre sé.
«Unità istituzionale e unità morale sono le due espressioni di quel che ci tiene insieme», ci ha ricordato nel suo messaggio di fine anno il Presidente Mattarella. Di fronte a un anno che nasce, si può scegliere di viverlo seguendo uno dei tre atteggiamenti possibili: pessimismo, e quindi ritorno al passato, godimento del presente, slancio verso l’avvenire.Sono i tre atteggiamenti fondamentali, con cui si può intraprendere la vita personale e quella sociale. Occorre scegliere per diventare degli ardenti e lo si può fare insieme, in cordata, in comunità.
Auguri, Buon 2022.