In questo 2021 ricorrono i settecento anni dalla morte del Sommo Poeta Dante Alighieri (1265-1321) e per l’occasione sono previste iniziative e festeggiamenti in tutto il territorio nazionale e in molte città all’estero. Il 5 maggio ricorrerà il secondo centenario della morte di Napoleone Bonaparte (1769-1821) ed è presumibile che questa scadenza attirerà grande attenzione in Italia e in Europa sul ruolo del personaggio nella costruzione dell’Europa moderna e contemporanea. Il presidente francese Emmanuel Macron ha già deciso e il 5 maggio prossimo celebrerà il bicentenario della morte, in quanto l’imperatore, secondo lui, è «una figura maggiore della nostra storia» mentre, la ministra incaricata per le Pari Opportunità, Elisabeth Moreno, ha duramente criticato l’imperatore dicendo, tra l’altro, che è stato «tra i più grandi misogini» e per aver «ripristinato la schiavitù», pur riconoscendo che si tratta di un «grande uomo della storia francese».
Nell’attesa dell’uscita della Lettera Apostolica di papa Francesco dedicata a Dante Alighieri e che verrà pubblicata probabilmente il 25 marzo, giorno in cui il Sommo Poeta iniziò a scrivere la Divina Commedia, sintetizziamo qui il punto di vista di due eminenti porporati, il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra e del Consiglio di Coordinamento fra Accademie Pontificie e il cardinale Angelo Comastri vicario generale emerito di Sua Santità per la Città del Vaticano, arciprete emerito della basilica di San Pietro in Vaticano e presidente emerito della Fabbrica di San Pietro.
In riferimento a Dante Alighieri, il cardinale Ravasi, in occasione di una conferenza stampa come neo presidente della “Casa di Dante” a Roma (7 marzo 2012), ebbe a dire che la Chiesa, soprattutto attraverso le parole e le azioni dei Sommi Pontefici, ha mostrato più volte il vivo e sentito desiderio di onorare degnamente la figura di Dante Alighieri, di tenere nella giusta considerazione la sua opera, considerandola come elemento essenziale del suo patrimonio culturale e religioso, per il suo profondo rapporto con la fede cristiana e con la riflessione teologica e filosofica sviluppatasi intorno alle verità della fede.Ricordando i più recenti anniversari danteschi, ci si accorge che i Pontefici, a nome di tutta la Chiesa, hanno tributato al Sommo Poeta uno straordinario, singolare onore, dedicandogli importanti documenti magisteriali, che evidenziano eloquentemente il filo rosso della continuità nell’interesse e nella volontà di conoscenza e valorizzazione della figura di Dante Alighieri.
Già Benedetto XV, con l’Enciclica In Preclara Summorum(1921) rivolta ai professori ed alunni degli istituti letterari e di alta cultura del mondo cattolico, affermava ed evidenziava «l’intima unione di Dante con la Cattedra di Pietro» poiché «In primo luogo il nostro Poeta durante l’intera vita professò in modo esemplare la religione cattolica, e… fece sua la dottrina scolastica di San Tommaso d’Aquino e fu attento conoscitore della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa». Parlando poi della Divina Commedia, il Papa sostiene che il poeta non ha altro fine che glorificare la giustizia e la provvidenza di Dio e che nel poema sono espresse le verità fondamentali della Chiesa Cattolica, così da renderlo un «compendio delle leggi divine»: Dio Uno e Trino, la Redenzione operata nel mistero dell’Incarnazione del Verbo di Dio, la somma benignità e santità di Maria Vergine Madre, la gloria dei santi, etc., fino a considerarlo come «il cantore e l’araldo più eloquente del pensiero cristiano».
Il papa Paolo VI, nella ricorrenza del VII Centenario della nascita di Dante, con la Lettera Apostolica Altissimi cantus(1965), evidenziava il profondo interesse della Chiesa per la figura di Dante, concretizzatasi con l’istituzione di una Cattedra di Studi Danteschi, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Già con l’incipit della Lettera Apostolica – sostiene il cardinale Ravasi – si evidenzia la centralità assoluta, in tutta la poesia italiana, del Sommo Poeta, definito “l’astro più fulgido” della nostra letteratura e ancora “padre della lingua italiana”. Così scrivendo, Paolo VI – sostiene ancora il cardinale – lo annoverava tra tutti i grandi poeti cristiani «per la grandezza dei temi trattati, per la purezza dell’ispirazione, per il vigore congiunto e squisita eleganza». Paolo VI evita di ricordare le invettive di Dante contro la Chiesa dell’epoca, ad esempio quelle contenute nei Canti III e XIX dell’Inferno, senza disconoscere che all’interno della Chiesa vi fossero stati degli errori. Il Papa riconosce che tra il Sommo Poeta e il pensiero cristiano vi sono numerosissimi elementi di contatto tra i quali l fine stesso della Commedia, che ha in comune col messaggio cristiano l’intento di cambiare radicalmente l’uomo, di portarlo dalla selva oscura del peccato alla rosa mistica della santità.
Anche Benedetto XVI già da Cardinale ha ricordato e citato più volte il Sommo Poeta. Il cardinal Ratzinger, infatti, nel libro Introduzione al cristianesimo, scrivendo di Cristo figlio di Dio fattosi uomo, e quindi del significato dell’essere che va ricercato non nel mondo delle idee ma nel volto di un uomo, rammenta la concretezza di questo pensiero nella conclusione della Divina Commedia di Dante: Dentro da sé del suo colore istesso, / mi parve pinta della nostra effigie, / per che il mio viso in lei tutto era messo. Dante, «contemplando il mistero di Dio, scorge con estatico rapimento la propria immagine, ossia un volto umano, esattamente in centro all’abbagliante cerchio di fiamme formato da l’amore che move il sole e l’altre stelle». Il cardinale afferma che la visione del Poeta è stata decisiva per cercare di recuperare il vero significato della parola amore. Benedetto XVI riprende questo tema e questi versi per spiegare il significato profondo della sua prima Enciclica Deus caritasest: «L’escursione cosmica, in cui Dante nella sua Divina Commedia vuole coinvolgere il lettore, finisce davanti alla Luce perenne che è Dio stesso, davanti a quella Luce che al contempo è l’amor che move il sole e l’altre stelle». Dante ha la visione della Trinità e, al centro di essa, di Cristo. Commenta Benedetto XVI: «Ancora più sconvolgente di questa rivelazione di Dio come cerchio trinitario di conoscenza e amore è la percezione di un volto umano – il volto di Gesù Cristo – che a Dante appare nel cerchio centrale della Luce. Se da un lato – prosegue il Papa – nella visione dantesca viene a galla il nesso tra fede e ragione, tra ricerca dell’uomo e risposta di Dio, dall’altro emerge anche la radicale la novità di un amore che ha spinto Dio ad assumere un volto umano». Altri riferimenti in altri incontri con diversi gruppi di fedeli.
Ad interessarsi invece di Napoleone Bonaparte è stato il cardinale Angelo Comastri in un suo recente libro dove ci ricorda che la carriera del corso fu rapidissima. A 24 anni venne nominato generale di brigata e tre anni dopo, nel 1796, passato ormai ai repubblicani rivoluzionari, cominciò la prima campagna d’Italia, nella quale mostrò il suo genio militare. Passando di vittoria in vittoria, alla fine del 1700 e all’inizio del 1800 era praticamente l’uomo più potente, invincibile e più temuto del tempo. Alessandro Manzoni, infatti, in occasione della sua morte, gli dedicò l’ode Il cinque maggio per celebrarlo, tra le altre, con queste parole:
«Dall’Alpi alle Piramidi,
Dal Manzanarre al Reno,
Di quel securo il fulmine
Tenea dietro al baleno;
Scoppiò da Scilla al Tanai,
Dall’uno all’altro mar».
Anche il grande musicista Ludwig Van Beethoven gli dedicò la Sinfonia 3, L’Eroica, salvo poi stracciare la dedica indignato dal fatto che Napoleone si fosse proclamato imperatore.
Gli ultimi anni del 1700, con la Rivoluzione francese, instaurarono un periodo di radicale e a tratti violento sconvolgimento sociale, politico e culturale occorso in Francia tra il 1789 e il 1799, assunto dalla storiografia come lo spartiacque temporale tra l’età moderna e l’età contemporanea. Le principali e più immediate conseguenze furono l’abolizione della monarchia assoluta, la proclamazione della repubblica con l’eliminazione delle basi economiche e sociali del sistema politico e sociale precedente (Ancien Régime), ritenuto responsabile dello stato di disuguaglianza e povertà della popolazione subalterna, e l’emanazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, futuro fondamento delle costituzioni moderne.
La Rivoluzione francese provocò una cruenta persecuzione della Chiesa (1791-1801). Il papa Pio VI morì nel 1799 prigioniero dei rivoluzionari francesi.
L’ascesa al potere di Napoleone Bonaparte riportò la pace religiosa con il Concordato del 1801; più avanti però si ebbero, come vedremo, dei contrasti con Pio VII per l’intrusione continua del governo francese nella vita della Chiesa. Il periodo napoleonico fu molto complesso, destinato ad avere molta influenza sulle vicende e sui caratteri della società italiana dell’Ottocento. Il rigido centralismo con cui Napoleone organizzò il “grande impero” da lui costruito comportò una totale subordinazione delle esigenze locali alla politica francese che schiacciava le autonomie dei singoli Stati. In Italia il dominio napoleonico significò la promulgazione della costituzione modellata su quella francese, significò anche la ristrutturazione dello Stato secondo nuove realtà amministrative costituite dai dipartimenti, dai distretti e dai comuni, comportò anche la riforma del sistema tributario e l’introduzione del codice penale e del codice civile francese. Alle riforme conseguì una instabilità sociale e una diffusa insoddisfazione in mezzo agli strati della popolazione. Con l’occupazione francese di Roma si era rotto anche l’accordo che Napoleone aveva fatto con il Papa nel luglio del 1801 e che aveva posto fine alle lotte religiose che si erano prodotte in Francia.
Nel rapporto di Napoleone con la Chiesa non va trascurato il fatto che, con l’emanazione del decreto imperiale del 19 febbraio 1806, Napoleone ha abolito in Francia la festa dell’Assunzione perché tale solennità offuscava il suo compleanno e soprattutto gli ricordava che l’umile ragazza di Nazaret aveva cantato nel Magnificat Dio che «ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1,51-52).
Nel 1809 il papa Pio VII per ordine dell’Imperatore fu deportato a Savona e poi in Francia dove Napoleone tentò di imporgli la restrizione della libertà della Chiesa. Questo trattamento fatto al Papa provocò l’ostilità verso il governo francese della maggioranza del clero e di larghe masse di cattolicianche nel territorio della diocesi di Orvieto. Nello stesso anno, infatti, fu arrestato dai francesi, tra gli altri, anche il vescovo di Orvieto monsignor Giovan Battista Lambruschini per non aver punito gli ecclesiastici che si erano rifiutati di prestare giuramento di fedeltà all’Imperatore.
Nella circostanza furono arrestati ed esiliati, insieme ad altri ecclesiastici, per essersi rifiutati di prestare giuramento di fedeltà all’Imperatore invasore anche i sacerdoti parroci di Allerona: il pievano di Santa Maria Assunta, don Geremia Della Vecchia, il curato di san Michele Arcangelo, don Pasquale Scargiali e il curato di Sant’Abbondio don Luigi Calandrini. Don Geremia fu preso e deportato a Parma il 1 agosto del 1810 dove rimase, godendo di una certa libertà, fino alla notte del 15 luglio 1812 allorché fu trasportato nelle carceri pubbliche di quella città ove restò fino al 4 dicembre successivo. Quindi fu trasferito nelle prigioni di Alessandria e finalmente liberato, verso la metà di aprile del 1814, poté ritornare alla sua chiesa di Allerona il 19 maggio dello stesso anno, come appare scritto nel Libro dei battesimi degli anni 1790-1828. Una volta fatto ritorno alla propria parrocchia, sotto la data rispettivamente del 16 maggio 1814, anche il curato Scargiali ha annotato la notizia del proprio arresto e carcerazione nel Libro dei morti dal 1798 al 1843. Don Luigi Calandrini compare infine in un registro che si conserva, al n. 58 dell’elenco n. 4 in cui sono ricompresi coloro che in primo luogo furono deportati a Parma e quindi ad Alessandria nei mesi di ottobre e novembre del 1812.
Per fortuna, però, la storia ci ha consegnato anche un Napoleone che verso la fine della sua vita ebbe il coraggio di affermare e difendere la divinità di Gesù, come riporta uno scritto pubblicato a Parigi nel 1843, a cura di un generale che lo seguì nell’esilio. Da esso sappiamo che l’Imperatore un giorno discusse lungamente con il generale Bertrand, che metteva in dubbio la divinità, dicendogli: «Generale Bertrand, noi siamo solo un fardello, e presto io sarò sotto terra. E’ questo il destino dei grandi uomini! Quello di Cesare e di Alessandro! E il nome di un condottiero o quello di un imperatore sono buoni solo per dei temi nelle scuole: che disdetta!. I nostri trionfi cadono sotto la ferula (la bacchetta) di un professore pedante, che si permette il lusso di lodarci e anche di insultarci. … Generale, rifletta bene! Gesù è nato nella più impressionante povertà, è vissuto nella più impressionante umiltà, si è lasciato inchiodare a una croce che è il patibolo degli schiavi e di coloro che non contano niente… eppure ha vinto! In questo modo può vincere soltanto Dio». (cu)